
Ero andato a trovare
il professor Lanniret subito dopo pranzo, come accadeva quasi tutte le
settimane dal giorno del suo pensionamento. Non lo facevo per compassione, o per
un interesse materiale: la compagnia del mio anziano maestro continuava ad
illuminare il mio intelletto di un chiarore che non mi era dato scorgere
altrove. La signora Lanniret era venuta
con le tazze del tè, fermandosi il tempo indispensabile per informarsi sul mio
stato di salute, poi aveva sistemato la coperta sulla carrozzella del marito,
ed era rientrata all’interno della dimora. Dopo la sua partenza, per lunghi
minuti, il professore era rimasto in silenzio, fissando con aria triste le ultime
foglie ramate del faggio che volteggiavano in preda del vento, nella luce intensa
del tramonto, assumendo bizzarre tinte violacee in controluce.
- Ognuna di quelle foglie – disse all’improvviso, come per
riprendere una conversazione da poco interrotta
- segue una traiettoria prestabilita. Lo immaginava, Bechet?
Ero abituato a quel genere di approccio: sapevo che dietro
la domanda, inattesa e bizzarra, si nascondeva un pensiero complesso e
raffinato. Perciò riflettei a lungo
prima di azzardare una risposta.
- Immagino – dissi alla fine – che conoscendo esattamente
ogni caratteristica delle foglie, la forza e la direzione vento, i parametri
che influenzano il moto dell’aria, e calcolando l’effetto combinato di tutti questi
fattori, allora sarebbe possibile indicare il percorso di ogni foglia.
- E di queste? – domandò, mentre con la punta del bastone,
che aveva tenuto posato in grembo, percuoteva il tappeto brunito ai piedi
dell’albero, sollevando un breve volteggio, frusciante e umido. – Cosa mi può
dire, di queste?
- Nulla, almeno finché non avessi avuto la certezza che le
avrebbe colpite, in quel momento, in quel determinato modo.
- Sbagli, ragazzo. – sussurrò il vecchio insegnante: come
sempre, quando era sul punto di rivelarmi un passaggio chiave dei suoi
pensieri, si dimenticava dell’etichetta e rinunciava alle formule di cortesia.
- Queste foglie attendevano che le colpissi dall’inizio dei
tempi. Così come ogni altra cosa, ciò che è appena accaduto era inevitabile. E
prima che tu mi interrompa con facili obiezioni te lo dimostrerò.
Estrasse da una tasca della giacca un piccolo quaderno di
appunti e me lo porse.
Lo presi ed inizia a sfogliarne le pagine: la scrittura
minuta e regolare del mio maestro mi era così familiare che ebbi l’impressione
di osservare i miei stessi appunti. In pochi istanti mi immersi nella lettura
così intensamente da perdere del tutto la cognizione del tempo che passava.
Quando sollevai nuovamente lo sguardo dalle righe fitte, il sole era tramontato
del tutto; il cono ondeggiante di una lampada da giardino rischiarava il viso
pallido del professore, le cui labbra iniziavano a tremare per il freddo.
Incurante di tutto, lo fissai in viso, sconvolto.
- Mio Dio! – dissi
alla fine. Malgrado tutto, fu l’interesse scientifico a prevalere, anche in
momento come quello. – E c’è arrivato partendo dalle equazioni di Minkowski?
Lui sorrise compiaciuto: - Sei acuto come sempre. Era la
soluzione più logica: non si può analizzare la realtà senza partire dalla sua
versione locale, non sei d’accordo, ragazzo?
Lo ero, naturalmente, ma non dissi nulla. Ero troppo
sconvolto da ciò che avevo davanti. Ignorando il mio silenzio, Lanniret
proseguì nel racconto di come era arrivato alle sue sconvolgenti conclusioni.
Le sue parole precise e chiarificatrici si accompagnavano alle immagini di
formule e grafici, che riempivano gli appunti, come le note di una perfetta
colonna sonora. Nei fogli, ingombri di calcoli ordinati, le formule che
descrivevano lo spaziotempo venivano rielaborate secondo una linea di ricerca
inedita, per molti aspetti quasi impossibile da concepire, ma immediata da
comprendere seguendo gli originali passaggi del professore. In questa visione
geniale e illuminata, nuovi spazi topologici si chiudevano in una successione
perfetta di serie armoniche, che lentamente giungevano a convergere, come fiori
che sbocciano e raggiungo l’apice del proprio splendore. La rivelazione finale
giungeva come una conseguenza logica di un processo evidente, inconfutabile.
- Il flusso del tempo non si può alterare – concluse
Lanniret, mentre io, abbandonato il quaderno sulle gambe, osservavo le onde
lunghe con cui la brezza increspava il lago, effimere perturbazioni nel campo
perfetto della superficie turchese.
- Se viaggiassimo nel
passato, non modificheremmo il presente, non più di quanto possano farlo i
nostri desideri. Ma lo stesso vale per il presente e il futuro: le decisioni
che prendiamo non hanno alcuna influenza sull’evoluzione della realtà
materiale. Ogni singola particella elementare ha tracciato il suo cammino fin
dall’inizio del tempo e non c’è azione o palpito della volontà che non sia già
inclusa in questo dettagliato disegno.
Tutto era accompagnato dalla sua voce calma, che descriveva,
con pacatezza e distacco, i passaggi con cui aveva lucidamente smantellato la
struttura del reale come la conoscevo, sostituendola con una realtà
terribilmente semplice. La logica della sua matematica non lasciava scampo, né
adito a controdeduzioni o interpretazioni alternative: il disegno intricato
della complessità universale si riduceva ad un unico, inalterabile segno
rettilineo.
Mi alzai: un nodo violento mi stringeva lo stomaco,
avvelandomi la bocca con il sapore metallico di qualcosa di molto vicino al
panico: respiravo a fatica, consapevole che quel gesto, indispensabile alla mia
sopravvivenza, era già determinato nel numero di atti che mi restavano da
compiere. Una quantità che comprendeva ogni eventualità futura ancora ignota
(ma a me soltanto!) inclusa la mia decisione di togliermi la vita. In preda ad
una vertigine, realizzai che era possibile calcolare
se di lì a un giorno, o un anno, o dieci, mi sarei suicidato; della mia
morte, si sarebbero potuti elaborare tutti i dettagli. Tuttavia, la conoscenza
di tali informazioni sulla mia dipartita non ne avrebbe potuto modificare un
solo particolare, né ritardarne o anticiparne il momento!
Compresi che, a quelle condizioni, l’universo era diventato
l’inferno. Un luogo dove non c’erano violenza, amore, grandezza o miseria,
volontà o debolezza che potessero imprimere al corso degli eventi un significato
diverso da quello di una inconsapevole obbedienza. Ciascuna azione era un
anello chiuso, senza sbocchi od altre connessioni oltre a quella di essere
forgiato in una catena di mere conseguenze, a sua volta originata da un
arbitrario e imperscrutabile impulso di cui non vi era modo di conoscere la
natura. Ogni responsabilità personale, ogni anelito di elevazione morale o
distruzione materiale, qualunque rivendicazione del diritto a determinare il proprio
destino, diventavano un abbaglio della coscienza.
Mentre piangevo, sostenendomi al tronco dell’antico faggio,
non potei scacciare dalla mente l’ossessivo pensiero che la mia mano si trovava
esattamente dove avrei dovuto metterla. La spostai, con rabbia, di un palmo,
compiendo così il successivo atto del mio copione. Avrei voluto urlare! Ma mi
trattenni, essendo previsto che non avrei gridato. Perduto in tali allucinanti considerazioni,
scorsi con la coda dell’occhio un bagliore vivido di fiamma: allarmato, mi
voltai, in tempo per scorgere il professor Lanniret che appiccava il fuoco ai suoi
appunti. Prima che riuscissi a muovermi, strappandogli il rogo dalle mani e gettandolo
a terra per spegnerlo, le fiamme avevano già divorato le pagine del quaderno in
modo irrimediabile.
- Mio Dio, professore! Ma perché l’ha fatto?
Il vecchio mi rivolse un sorriso stanco: - Proprio tu? Tu
che conosci, mi fai questa domanda?
Esasperato, gli gridai contro: - E allora perché ha dovuto
farlo! Quale logica perversa prevede che lei scopra la verità finale sulla vita
e sull’universo, per poi distruggerla?
- Anche senza quelle pagine, sono certo che lo capirai.
Mi aveva parlato con il tono dolce e accorato che un padre
avrebbe usato con suo figlio: ma in quel momento, il suo affetto non mi toccò.
Sconvolto e infuriato, attraversai il parco di corsa, uscendo dalla casa senza
salutare, e avviai con rabbia il motore della mia automobile. Non ho ricordi delle
ore successive, ma sono certo che guidai a lungo, con furiosa imprudenza, e
senza meta. Credo che volessi mettere alla prova il destino, vedere se era
previsto che sarei morto, dopo aver conosciuto la verità; anche se sapevo che i
miei tentativi non avrebbero potuto modificare il futuro, ma solo contribuire a
realizzarlo. La mia ribellione e il tentativo di sottrarmi all’infinita recita facevano
sempre parte del copione.
Mi svegliai nel divano di casa mia: la schiena a pezzi, la
testa confusa. In bocca mi gorgogliava il sapore acido dell’alcool che dovevo
aver ingurgitato. Mi alzai incerto, tenendo a bada il rollio del pavimento, e
raggiunsi la finestra: fuori, la città si svegliava sotto la coperta cinerea di
un cupo giorno di ottobre.
Un pensiero, qualcosa di importante e decisivo, aleggiava ai
confini della mia mente, ma il trillo inquieto del telefono mi impedì di
metterlo a fuoco. Riconobbi a stento la voce della signora Lanniret, rotta dai
singhiozzi. Ascoltai ciò che mi diceva, incapace di provare un vero sentimento
di dolore, e non seppi pronunciare niente di meglio di alcune frasi fatte di
cordoglio. Lei mi ringrazio comunque con calore; prima di lasciarmi, mi
assicurò che il marito non aveva sofferto; la morte lo aveva colto nel sonno,
poco dopo la mia partenza. Si era appisolato sotto il grande albero, nel luogo
che più amava.
Riappesi la cornetta e tornai ad osservare il quadro vivente
fuori della finestra: sugli alberi, schiere di foglie morte attendevano il
richiamo del vento; per la prima volta, compresi pienamente la loro esistenza
passiva, priva di ogni illusione. Pensai all’uomo che avevo seguito per tutti
questi anni: era perduto, oltre la consapevolezza, dove forse c’è un’immensa
pace. Era stato, il suo ultimo insegnamento? Aveva inteso farmi un dono
estremo, indicando l’unico modo per sfuggire alla trappola del libero arbitrio?
Con il passare delle ore ne fui certo. Il mio mentore,
rivelando a me solo quell’oscura verità, voleva risparmiarmi la frenesia di una
vita spesa invano, come un uomo che cammini con affanno lungo il vagone di un
treno, senza poter con questo accorciare di un solo istante la durata del
viaggio. Forse il mondo non era ancora pronto, per tutto questo: non era
previsto che lo fosse.
***
Ci volle un po’ di tempo. Ma alla fine mi fu chiaro, il vero
potenziale di quella scoperta: il suo pensiero, che aleggiava agli margini
della mia coscienza, svelò a poco a poco il suo esaltante significato. Il mio
maestro aveva trovato il modo di prevedere il futuro con sbalorditiva
precisione; come aveva detto lui stesso, il cammino di ogni singola particella
elementare è tracciato per l’eternità. Si tratta solo di saperlo calcolare.
Non era stato facile
recuperare il lavoro del professor Lanniret, partendo dai brandelli di ricordi
che la mia mente esausta aveva trattenuto: ma nell’impresa mi aveva aiutato la
consapevolezza che ce l’avrei fatta senz’altro, se così era previsto. Alla
fine, mi serviva solo un calcolatore industriale, che comprai con i miei
risparmi: in pochi mesi, fu tutto pronto.
Scoprire che ero destinato alla politica non mi sorprese: l’idea
mi allettava e l’accolsi con entusiasmo. La mia campagna per le elezioni a
Governatore dello Stato fu travolgente. Il programma politico, le prese di
posizione, persino i messaggi sui social network: tutto incontrava l’incondizionato
entusiasmo delle masse. Sembrava che fossi in grado di leggere nei desideri
della gente, ma la realtà era più semplice: conoscevo l’esito di ogni mia
azione. Ammetto che la cosa all’inizio mi aveva creato qualche scrupolo, ma ben
presto misi a tacere la coscienza con la logica impeccabile della realtà che
conoscevo: tutto è scritto, ogni dettaglio del modo con il quale si realizzerà
il mio trionfo. Non c’è responsabilità nelle mie decisioni; non esiste alcuna
possibilità di errore. La mia consapevolezza mi permette di vivere al di là del
bene e del male: per questo sono sereno.
Anche adesso, seduto
nel caffè del Senato, mentre guardo i risultati dei sondaggi per le imminenti
presidenziali, non provo alcuna apprensione nel vedere che il mio principale
rivale, il Senatore Remure, è in netto vantaggio. La mia unica preoccupazione è
quella di riuscire a trattenere un ghigno soddisfatto: la descrizione del
cronista che ha avuto l’esclusiva è identica a come avevo calcolato la scena
dell’incidente.
Ovviamente non c’è nessun accenno al fatto che l’autista ha
perso il controllo mentre cercava di staccarsi dal palato uno dei pasticcini,
offerti al suo capo dal mio staff, in segno di fair play. Ma per il resto l’articolo è perfetto: riporta persino la
bizzarra forma arcuata dello squarcio che la lamiera dell’auto ha prodotto sul
petto del Senatore Remure, uccidendolo in pochi istanti.
Questo racconto partecipa al 78° Carnevale della Matematica, sul blog "Crescere Creativamente" di maestra Rosalba.
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