- Non farlo, Erond. È pericoloso!
Le parole della ragazza si persero nel frastuono della
cascata. I getti paralleli le ondeggiavano davanti, gettandosi nel baratro
sottostante: due immense colonne d’acqua che congiungevano il cielo e la terra.
Alemor sentiva la veste fradicia che le si appiccicava al corpo, mettendo in
evidenza le sue forme piene in un modo che, in un'altra circostanza, avrebbe
trovato sconveniente. Ma in quel momento le importava soltanto impedire a suo
fratello di compiere un’immensa sciocchezza, che li avrebbe condannati tutti.
- Le leggende sono soltanto fesserie! – ripeté, gridando per
farsi udire dal giovane. – Non c’è nulla, dall’altra parte del mondo!
Lui, nel frattempo,
aveva percorso diversi metri, ondeggiando sull’esile cornicione di roccia che
si staccava dalla parete della montagna, contornandone il profilo nel punto in
cui il sentiero veniva interrotto dalla cascata. Senza dar mostra di udire i
richiami della sorella, Erond proseguiva nel drammatico tentativo di superare
il profilo di quel costone, oltre il quale era impossibile andare: già il suo
braccio, proteso all’estremo, scompariva oltre la curvatura dello spuntone, e
la mano si agitava alla frenetica ricerca di un appiglio. Ma la roccia, da
quella parte, era liscia e fredda, come se la montagna, oltre la cascata, fosse
fatta di metallo.
- Fermati Erond! – gridò ad un tratto una voce maschile,
alle spalle di Alemor. – Torna immediatamente indietro.
Il ragazzo si voltò di scatto; per un terribile istante
parve aver perso il suo precario equilibrio: vacillò, mentre la giovane non
riusciva a trattenere un grido, ma poi i suoi muscoli, tesi allo spasimo,
ebbero la meglio sulla gravità, e lui si appiattì contro la roccia.
- Padre! – gridò in risposta, posando lo sguardo sulla
figura di un vecchio, avvolto in una semplice tunica di lana scura.
- È proibito andare più in là. Nessuno può farlo, figlio
mio. Nemmeno tu.
Le parole dell’uomo, pronunciate con il tono calmo e solenne
che lui adoperava durante le sue lezioni al tempio, avevano un effetto surreale
e bizzarro. Erond voltò di scatto la testa, incurante della sua posizione
instabile, e gridò con rabbia: - Perché? Perché non possiamo andare più in là?
Moriamo di fame, non c’è più un fazzoletto di terra da coltivare, nella valle!
- La Legge lo proibisce!
- La Legge! – ripeté il giovane, sprezzante. – Nessuno
ricorda più la ragione per la quale è
stata scritta la Legge. Appartiene ad un passato che non conosciamo. Apri gli
occhi, padre: per quanto ne sappiamo, l’Intero Libro potrebbe essere stato
scritto da un pazzo!
- Sei tu il pazzo! Sacrilego! – si lamentò l’uomo, tirandosi
la lunga barba e percuotendosi con violenza il capo. – Proprio tu, mio figlio,
osi bestemmiare così!
Incurante della reazione del padre, Erond si rivolse alla
sorella, con un sorriso amaro: - Che ti avevo detto? Non è possibile
ragionarci. Lui e gli altri sacerdoti rimarranno a guardare impotenti la nostra
gente che crepa, senza far altro che ordinare alle madri di abortire.
- Non parlare così. – gemette la giovane, sconfortata.
Senza darle ascolto, Erond riprese a strisciare contro la
roccia scivolosa, cercando di tenere la testa lontana dall’enorme nuvola di
spruzzi che minacciava di soffocarlo. Le sue dita, protese al di là dello
spigolo aguzzo della roccia, graffiavano la parete liscia, nello sforzo di
percepire una qualsiasi discontinuità in quella superficie innaturale e
metallica.
Spinse il piede in avanti, fino al limite assoluto del
cornicione, che si andava assottigliando sempre di più fino a scomparire nella
roccia. Ad un tratto, con la punta del dito indice incontrò un lievissimo
rilievo: eccitato, tese il corpo oltre il limite di ciò che credeva possibile.
I tendini delle braccia e i muscoli della schiena sembravano sul punto di
spezzarsi, inondandogli il cervello con lampi aguzzi di dolore: ma Erond
resisteva, ignorando ogni cosa e concentrandosi soltanto sulla minuscola
protuberanza che aveva trovato. La palpò con i polpastrelli, cercando di indovinarne
il profilo, e quando fu certo di averla ben localizzata, gridò: - Ho trovato
qualcosa!
Alemor e suo padre si alzarono di scatto dal masso dove si
erano seduti, al margine del sentiero, e urlarono con una sola voce: - Cosa
c’è?
- Credo… mi pare che sia un tassello di pietra, in rilievo
rispetto alla parete circostante. Adesso provo a…
- Non toccarlo! Fermati, incosciente! – gridò il vecchio, ma
era troppo tardi.
Sotto la pressione delle dita, il tassello ebbe un sussulto
deciso e poi, con meccanica precisione, iniziò a rientrare nella superficie da
cui sorgeva. In pochi secondi vi scomparve: Erond cercò invano di trovare la
sottile fessura, che aveva individuato poco prima, e che adesso era del tutto
impercettibile. Nello stesso momento, accadde qualcosa di talmente
inconcepibile che il sacerdote e suoi figli non riuscirono a realizzare subito.
Ascoltarono disorientati, tendendo l’orecchio per comprendere cosa fosse quel
suono innaturale che percepivano con crescente angoscia, finché Alemor volse lo
sguardo verso il baratro e gettò un grido di terrore.
- Che succede? – gridò l’uomo, ma la domanda non aveva
bisogno di risposta, perché anche lui, voltandosi lungo la direzione dello
sguardo di sua figlia, stava osservando lo stesso raccapricciante spettacolo.
La cascata non c’era più. L’imponente massa d’acqua, che da innumerevoli
generazioni scorreva nella stretta valle, riempiendo il piccolo fiume e
irrigando i pochi campi, si era arrestata all’improvviso: del suo frastuono
secolare rimaneva soltanto un immenso, orribile silenzio, che faceva fischiare
le orecchie e rendeva insopportabilmente acuto e vivido ogni altro rumore.
- Grandi dei! Signori
dei Cieli, Madre delle Acque! Che cosa hai fatto? – le urla del sacerdote
trapanavo le orecchie di Erond e gli rimbombavano nella testa; il giovane
vacillava sulla roccia, disorientato dall’assenza degli spruzzi e dall’assurdo
spettacolo del precipizio asciutto spalancato sotto i suoi piedi. Dall’alto,
contemplò attonito lo spettacolo del piccolo lago, ai piedi della cascata, che
si svuotava rapidamente, mentre il fiume calava a vista d’occhio e scompariva
nella voragine al termine della vallata. Il villaggio, man mano che l’acqua
scompariva, andava trasformandosi: il dedalo di canali e ponticelli che lo
attraversavano come un reticolo si asciugò in pochi minuti e l’intero abitato
assunse l’aspetto grottesco di una pozza di fanghiglia, secca e screpolata. Il
ragazzo poteva vedere le figure minuscole degli abitanti che correvano qua e
là, in preda al panico, osservando la montagna: gli pareva di udirne le grida
e, assurdamente, temette che potessero vederlo.
Sconvolto, cercò di tornare verso il sentiero, ma il panico
che lo aveva invaso rendeva impacciati i suoi movimenti: sarebbe di sicuro caduto
se sua sorella, all’ultimo istante, non lo avesse afferrato, trattenendolo per
le braccia mentre già penzolava con i piedi sull’abisso.
- Padre! Aiutatemi. Non ce la faccio da sola! – implorò la
giovane.
Ma il vecchio non sembrava in grado di sentirla: era
scivolato a terra, appoggiato con la schiena alla roccia, e piangeva
inconsolabile. Ai lati del suo viso, le lacrime scorrevano copiose in due file
parallele, come gli antichi getti d’acqua che da tempo immemore rendevano
possibile la vita in quel luogo remoto.
- Perché l’hai fatto? Scellerato! Nessuno ricorda, nessuno
sa più come funziona il flusso d’acqua!
- Aiuto! Scivolo! – gridò Alemor, disperata. Sentiva di
essere sul punto di cedere, ma non osava lasciare la presa con la quale
stringeva i polsi del fratello; questi, in preda al terrore, gridava e
scalciava, rendendo tutto ancora più difficile.
- Moriremo tutti. Per i nostri peccati, la nostra arroganza,
moriremo tutti… - continuava a farfugliare l’uomo, incapace di accorgersi della
tragedia che si consumava ad un passo da lui. Sconvolta, non osando staccarsi
da suo fratello, la ragazza fu trascinata oltre il ciglio del burrone e
scomparve nel vuoto con un ultimo, disperato grido.
Solo a quel punto, quando l’assenza di ogni rumore fu
completa, il vecchio sacerdote si scosse e, piangendo forte, si affacciò a sua
volta: vide subito le sagome scomposte dei suoi figli, sfracellati sulle rocce
centinaia di metri più in basso. Non seppe decidere, in quegli ultimi istanti
in cui il sibilo violento dell’aria gli riempiva la mente, se l’essersi dato la
morte gli avrebbe valso la remissione della sua colpa, o una definitiva
condanna.
In basso, fra le case e le strade, i pochi coloni della
sessantesima generazione del Progetto Oort osservavano ammutoliti i tre cumuli
di terra fresca, dove erano stati ricomposti i resti del sacerdote e dei suoi
figli. La madre si era sentita male quando le avevano dato la notizia, ed ora stava
a letto con la febbre, vegliata da un’anziana. Il silenzio era totale: la comunità
non aveva voglia di piangere quei tre sciagurati; che il giovane Erond fosse
una testa calda lo sapevano tutti, ma nessuno lo aveva mai creduto capace di
tanto. Superare il Confine, tentare di andare oltre la fine del Sentiero. Ed
immediatamente la Madre, offesa per il sacrilegio, aveva tolto la sua acqua di
Vita! La follia di uno solo aveva condannato tutti ad una morte orribile.
La piccola porzione abitabile dell’asteroide, quella rivolta
verso il sole, aveva mantenuto la sua efficienza per migliaia e migliaia di
anni, assicurando alla popolazione un livello accettabile di sussistenza; a
patto di non eccedere con le pretese, e con le nascite. Fotosintesi, produzione
d’ossigeno, arricchimento del suolo, ciclo dell’acqua: tutto aveva sempre
funzionato al meglio. Gli Dei provvedevano ad ogni cosa con la loro
benevolenza. Bastava stare al proprio posto, non superare i limiti che, da
generazioni, non erano mai stati messi in discussione. E ora, grazie
all’avventatezza di un giovane scriteriato, quel giardino perfetto stava per
diventare un arido deserto, popolato di spettri.
- Maledetto! – sibilò una vecchia, con cattiveria, rivolta
al tumulo centrale. Gli altri le fecero eco, sussurrando sorde parole di
disprezzo. Poi, ad uno ad uno, i cittadini si allontanarono, tornando alle
proprie case, con il cuore pesante. Cupi e spaventati, osservavano il letto
riarso del fiume, con le alghe che seccavano al sole. Già gli pareva di veder
avvizzire l’erba, seccarsi le foglie degli alberi, mentre il giorno senza
tramonto splendeva nel cielo sempre limpido, incapace di pioggia. La lunga,
mortale siccità era cominciata.
Fu in quei momenti, mentre tornavano alla consuetudine delle
proprie case, immutate da generazioni, che il pensiero si fece strada, simultaneo,
nelle menti di tutti loro: una volta compiuto il sacrilegio, non c’era ritorno:
il loro paradiso era perduto per sempre. Ciò diceva il Libro: “Ogni processo
innescato non può essere interrotto”; le conseguenze dell’eresia erano
irreversibili. Rimaneva solo la morte, una fine dignitosa e rassegnata, come
unica forma di espiazione. Ma perché soffrire? A che scopo spegnersi
lentamente, guardando il deserto avanzare, combattendo una lotta fratricida per
accaparrarsi le ultime, squallide gocce d’acqua sporca che insozzavano di
pozzanghere i canali? No, nessuno di loro si sarebbe abbassato a tanto, finendo
i propri giorni come un miserabile pezzente. Erano coloni, per gli dei! Il
germe della nuova umanità: vivevano nobilmente da migliaia di anni e dovevano
reagire alla sventura, conformi ai propri princìpi.
Nel volgere di poche ore, tutti gli abitanti del villaggio
dormivano un sonno quieto e composto, indotto da potenti farmaci che li
avrebbero spinti dolcemente fra le braccia di una morte pietosa: anche la madre
di Erond, inconsapevole di ogni cosa, accettò con le labbra la sua dose di
veleno, mormorando una parola di gratitudine.
Nell’assoluto, sepolcrale silenzio, dall’alto del pinnacolo,
una voce metallica si levò ed echeggiò per i campi, fino alle case: “Manutenzione
straordinaria filtri, completata”.
Poi, con solennità, il maestoso getto d’acqua sgorgò dalla
roccia, gettandosi a capofitto sul letto del fiume: l’eco dell’urto rimbombò
per la vallata, rimbalzando fra le case, riempiendo l’aria di quel familiare
canto di vita che ogni colono lodava da sempre, con gioiosa gratitudine, al
risveglio.
Ma quel giorno dentro
alle case, ad accogliere l’acqua, non c’era nessuno.
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